persino Mastroianni e Sordi. Ci divertivamo con poco e spesso prendevamo la sgridata dal regista o chi per esso perché facevamo baccano dopo il ciack e loro erano costretti a ripetere la scena.
     Crescendo ho imparato ad amare quel selciato viscido e scivoloso nelle giornate uggiose, quell'odore di viuzze polverose e ammuffite, quei palazzi, quei monumenti, studiandone la storia, l'origine e immaginando i personaggi che vi avevano vissuto nel corso dei secoli. Ero fiera di vivere lì e quando qualcuno mi chiedeva dove abitassi rispondevo con una punta d'orgoglio: "in Città Alta" perché sapevo che avrei ricevuto apprezzamenti di meraviglia e commenti del tipo: "che fortuna...". Amavo camminare nelle sere invernali nei giorni in cui le strade erano deserte, respirare la nebbiolina che rendeva tutto magico e modificava gli spazi, oppure camminare mentre la neve illuminava con il proprio candore le ore serali e rendeva tutti i suoni, i miei stessi passi e i respiri ovattati. Amavo l'odore dell'aria gelida che mi tagliava le narici alla mattina presto o l'odore acre del fumo dei camini.
     E anche se allora mi pesava un po’, ripenso con nostalgia a quelle attese nella stazione della funicolare per scendere verso la Città Bassa o viceversa, negli anni delle Superiori e dei primi Lavori. Ricordo quel cielo limpido e gelido delle mattine invernali, ancora buie e stellate attraverso il vetro della vettura, e quel senso di benessere quando risalivo ed uscivo dalla stazione tornando a respirare l’aria della mia città.
     Se poi partivo per qualche viaggio, già dopo pochi giorni la nostalgia mi faceva cogliere aspetti e similitudini di quella mia Città Alta ovunque e quando al ritorno cominciavo ad intravedere il profilo dei sette colli dove essa si adagia, nel cuore sentivo di essere tornata a casa e mi faceva dire: “non esiste posto più bello”.
     Ora non abito più là, e sembrano i versi di una canzone, perché quando ho sentito il bisogno di una casa tutta mia, le situazioni della vita mi hanno portato via nella parte bassa di Bergamo, ma là ho lasciato il mio cuore. Spesso ritornavo a percorrere quelle stradine tortuose e strette e mi rivedevo bambina con le ginocchia sbucciate, la mia gonna arricciata e i sandali smangiucchiati sulle punte, di certo non abiti griffati, magari erano quelli della sorella o della cugina cresciuta, cuciti dalle mani abili di mamma o zia, mi rivedevo quando ottenuta la mancia di 50 lire correvamo a comprare un gelato nei caldi e afosi pomeriggi estivi, nelle vie deserte dove echeggiavano le telecronache del Giro. Ricordavo le

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