TREBLINKA, L’ORRORE CANCELLATO
                                  di Massimo Jevolella

     Si parla sempre di Auschwitz, quando si vuol ricordare la tragedia immane dell’Olocausto. Ad Auschwitz i segni dell’orrore sono ancora visibili, si possono toccare con mano. Baracche, filo spinato, torrette di guardia, forni, camini, il binario della morte, la scritta in ferro battuto “Arbeit Macht Frei” (“Il lavoro rende liberi”), terribile nel suo macabro sarcasmo. Tutto, o quasi tutto, è ancora lì, a testimoniare la ferocia, la follia, il dolore infinito di una catastrofe umana che non ha paragoni nella storia. Ogni pietra, ogni mattone, ogni asse di legno imputridito è come un grido di terrore e di vergogna che si leva verso il cielo e si perde nel vuoto dell’insensatezza. Auschwitz è un monumento, un sacrario, una meta di incessanti pellegrinaggi, un simbolo universale. Eppure la Polonia è disseminata di altri luoghi, altri nomi marchiati a fuoco dalla criminalità nazista, che pur non possedendo la stessa suggestione “visiva” di Auschwitz possono lasciare un ricordo indelebile in chi abbia la ventura di visitarli.
     Accadde a me dieci anni fa. Eravamo nel mezzo di un agosto torrido e afoso. La strada che da Varsavia si snoda in direzione nord-est, verso Bialystok e il confine con la Bielorussia, sembrava un piccolo fiume grigio immerso nel verde cupo delle foreste. In quel tempo ero sposato con una giovane donna polacca di nome Maria (ora lei non c’è più, mi ha lasciato nel 2006, stroncata da un male inesorabile). La famiglia materna di Maria, gli Sklodowsky, era originaria di quella regione, la Podlachia: una distesa infinita di campi lievemente ondulati, totalmente agricola e quasi ferma nel tempo, scarsamente abitata e punteggiata solo di villaggi sperduti e di qualche rara e piccola cittadina. La nostra meta era il minuscolo borgo di Winna Chroly, a pochi chilometri dalla cittadina di Ciechanowiec. I cugini di Maria ci accolsero con estremo calore. Cucinarono per noi i tipici e squisiti “blin” bielorussi. E il giorno dopo Maria mi condusse a conoscere lo zio Marek. Un uomo molto anziano, malato e zoppicante, ma incredibilmente vivace e spiritoso. In vita sua non si era mai allontanato dalla regione di Winna. Fu dalle sue parole che nacque in me l’idea di visitare il campo di Treblinka.
     Prima di partire da Varsavia non avevo studiato bene la carta geografica della Podlachia. Non sapevo che Treblinka era proprio lì, vicinissima a noi. Lo zio Marek parlava e rideva come un bambino. Raccontava in polacco vecchie storie, e Maria le traduceva per me. A un tratto mi venne in mente di chiedergli: «Che cosa ricordi degli anni di guerra?». Lui, continuando a ridere, si mise a narrare

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