La storia del campo di Treblinka era cominciata nel luglio del 1942, quando i nazisti decisero di avviare alla “soluzione finale”, ossia allo sterminio, i quasi 400.000 ebrei che ancora sopravvivevano nell’inferno del Ghetto di Varsavia. Ogni giorno le SS rastrellavano nel Ghetto dalle cinque alle seimila persone, le incanalavano in corteo verso la Umschlagplatz (la vasta piazza antistante lo scalo ferroviario della linea di Bialystok, perfettamente ricostruita nel bellissimo film “Il pianista”, di Roman Polanski), e da lì le imbarcavano sui carri bestiame piombati, diretti a Treblinka. Dicevano loro, per tenerli calmi, che li portavano a est, nei campi di lavoro, ma la realtà era ben altra. Quando i convogli arrivavano a Treblinka, i deportati venivano fatti scendere dai vagoni ed erano subito avviati alle camere a gas. Ancora non si utilizzava il micidiale e rapido “Cyclon B”, che in seguito fu usato in grande stile ad Auschwitz. A Treblinka si ricorreva agli scarichi dei motori diesel. L’agonia era più lenta, poteva durare dai venti ai quaranta minuti. Le vittime venivano ammassate nelle camere a gas, così strette da non poter cadere a terra dopo la morte. I cadaveri venivano poi gettati in una fossa vicina, dove venivano subito bruciati.
     Nell’autunno del ’43 il campo cessò di funzionare. Il Ghetto di Varsavia era ormai scomparso. Era stato raso al suolo in maggio, dopo la fine della rivolta eroica degli ultimi ebrei. L’area su cui sorgeva il campo di sterminio, con tutte le sue baracche e le sue installazioni, fu totalmente “ripulita” dai nazisti, in modo tale da non lasciare la minima traccia della sua esistenza. La banchina di cemento e il tratto di binario che oggi si possono vedere furono ricostruiti più tardi, dopo la fine della guerra, per offrire una traccia tangibile alla memoria.
     Porterò nel cuore, finché avrò vita, il silenzio abissale di Treblinka. La pace irreale di un bosco polacco, dove tutta l’atrocità e l’insensatezza del destino umano si concentrarono e si scatenarono, come in un gelido uragano, durante quei tredici mesi di guerra. E di una cosa son certo: la potenza del Male non si è esaurita allora. Il mostro si è rintanato ma non è morto. Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese che morì ad Auschwitz nell’autunno del ’43, scrisse nel suo Diario che: «Ogni atomo di odio che aggiungiamo nel mondo lo rende ancora più inospitale». Etty aveva capito che il male non è fuori di noi, ma dentro ciascuno di noi. L’errore più grave, come insegnava Gesù, consiste proprio nel proiettare il male solo fuori di noi: in questo modo si creano i mostri, che poi ci sentiamo autorizzati a distruggere per “liberare il mondo dal male”. Così fecero i nazisti con gli ebrei (e con i Rom e con gli omosessuali, anch’essi spediti a migliaia nei lager della morte). Ed è questa la lezione da non dimenticare.

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