era fuggita dalla sua benefattrice rinnegandola, nelle orecchie l'ammonimento “Non dire mai 'io di quest'acqua non ne bevo'”, si ritrova ora a fare i conti con la sua coscienza. Ciò che deve essere fatto non è sempre ciò che si vuol fare, Maria lo imparerà sulla propria pelle.
Uscito dopo che il polverone mediatico sulle vicende Welby-Englaro si è posato, “Accabadora” non l'ha certo risollevato, per fortuna, perché gli ideologismi e le prese di posizione non si confanno a questa storia delicata e cruda al tempo stesso, raccontata con la semplicità e la sospensione di giudizio di chi vuol lasciare che siano i fatti a parlare e non le vuote prese di posizione.
L'ammonimento finale di Bonaria a Maria suona come il distillato di una saggezza di centinaia di anni, semplice come il buon senso, ma profondo come solo l'esperienza dei vecchi sa essere: “Non dire mai 'io di quest'acqua non ne bevo'”. Sono poche parole, sufficienti a ricordare a Maria, a ricordare ai lettori, che non tutto nella vita è bianco o nero, che le sfumature, per quanto sgradite, esistono e sono cangianti e che, soprattutto, il rispetto per la vita passa anche dal rispetto della morte.
Sarebbe facile vedere in “Accabadora” un manifesto a sostegno dell'eutanasia, quando prevista dal discusso “testamento biologico”, ma Bonaria si preoccupa di chiedere a coloro che la cercano se sia stato il morente a fare il suo nome, si riserva di rifiutare di prestare la propria opera se l'ora della persona non è ancora giunta. Bonaria non fa ciò che fa a cuor leggero, sa che il suo ruolo è sgradito, ma necessario, né più né meno che quello dell'ostetrica che aiuta la vita a venire alla luce. Sa che la morte è solo l'altra faccia della medaglia, che prima o poi tutti dovranno passarci, che affannarsi a respingerla e negarla è solo un atto disperato che porta ulteriori sofferenze, ma che aiutare ad avvicinarla non è né un potere da semidei né un privilegio, ma una maledizione da accettare a capo chino.
Silvia Ferrari
|
|
|