nozioni attinte a una scienza tradizionale dalle origini lontane, che sicuramente superavano i confini dell’India. Dunque, potevano in qualche modo valere anche per l’arte cristiana dell’Europa medievale?
La scintilla s’era accesa. Adesso era necessario esaminare i capitelli del chiostro con molta cura. Nell’ordine inferiore del colonnato, 72 colonne si affacciavano verso la luce del giardino e 72 verso la penombra del porticato. Il ritmo spaziale e numerico del chiostro si poteva riferire con estrema chiarezza ai cicli del tempo e delle stagioni, così come all’alternarsi dei giorni e delle notti. In queste 72 doppie colonne, cadenzate su ogni lato del quadrato in tre gruppi di sei, le rappresentazioni di animali erano in tutto 42. E i loro valori musicali cominciavano già a suggerire una chiara struttura melodica: il “fa” del leone solare e trionfante e il “mi” del toro sacrificale notturno e soccombente; il “la” dell’uccello canterino e il “re” del pavone che esprime l’equilibrio delle forze naturali; il “do” dell’aquila e il “fa” del gallo, animale solare per eccellenza; il “fa” del leone che diminuisce a “mi” quando il fiero animale viene domato e si accascia stanco sul far della sera. Schneider non ebbe più dubbi su quelle corrispondenze. Ma come interpretare le numerose lacune dell’esitante melodia?
La soluzione dell’enigma si trovava lì, tra le mura del convento: era l’unica copia integra sopravvissuta di un manoscritto del XIII secolo, il “Liber consuetudinum”, che conteneva il testo musicale dell’inno dedicata a Cacufane, il santo martire catalano nel cui nome era stato fondato il monastero di Sant Cugat. Schneider esaminò l’inno e non tardò ad accorgersi che la struttura melodica dell’ultima strofa (“Ut pia tecum, Cucufas beate”) concordava perfettamente con la sequenza musicale dei capitelli. “I capitelli privi di figure animali”, scrisse poi nel saggio “Pietre che cantano”, “corrispondono esattamente al numero e al posto delle note da inserire”. Ma perché mancavano quelle sculture? “Perché”, egli spiegò, “essendo ogni animale congiunto a una determinata ora, la sua raffigurazione plastica doveva mancare ogniqualvolta il simbolo musicale richiesto dalla melodia era in contrasto con l’ordinamento delle ore relativo a questo animale”.
L’enigma era risolto. Dopo secoli di impenetrabile silenzio, così, le pietre di Sant Cugat tornavano a cantare il loro mistico inno di lode. L’architettura svelava il suo segreto sonoro: il colonnato inferiore del chiostro si poteva leggere come un pentagramma chiaro. “Il destino di colui che è privo di timore reverenziale”, scrisse poi Schneider nel suo affascinante libro (edito in Italia da Guanda alcuni decenni fa), “consiste nel fatto che il sacro parla al suo cuore. Per lo stesso motivo l’imperscrutabile non diventa percettibile per colui che è insensibile, non lo colpisce con la sordità né lo priva della vista, ma passa innanzi a lui silenzioso e senza splendore”.
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