bibliche e allegorie ispirate ai fantastici bestiari dell’antichità. Un leone con testa di drago, per esempio, è l’immagine del Cristo vittorioso. I suoi occhi intensi, quasi feroci, esprimono la fermezza nel respingere le seduzioni di Satana e alludono al carattere leonino dell’arcangelo Michele. I misteri della Sacra sono tutti racchiusi in questa Porta prodigiosa.
Con la fine del XIV secolo, la gloria della Sacra comincia ad offuscarsi. La lunga decadenza è favorita dalle guerre, che trascinano soldati e soldataglie fra le sue mura, riducendola spesso alla funzione di bivacco e di fortezza militare. Nel 1622, infine, l’abbazia viene abbandonata dagli ultimi tre monaci e soppressa dal papa Gregorio XV.
Pochi anni dopo viene saccheggiata e cannoneggiata dai francesi. La rovina è completa, ma l’arcangelo guerriero non si arrende e nel 1827 suona la tromba della riscossa. Un gentiluomo di quasi trent’anni, il marchese Massimo d’Azeglio, parte da Torino e va a prendere alloggio in una bettola del paesino di Sant’Ambrogio, ai piedi del Pirchiriano. Da lì, armato di fogli e di colori, una mattina sale alla Sacra e ne rimane estasiato. “Questa Badìa”, scriverà nelle sue memorie, “è uno degli edifizi più originali e pittoreschi che abbia mai veduti”. Ispirato da quella visione, realizza una serie di romantici disegni, che due anni dopo pubblica a Torino in un volume monografico intitolato “La Sacra di San Michele disegnata e descritta”. Il libro fa colpo. La Sacra viene riscoperta e rivalutata. Re Carlo Alberto, nel 1836, ne promuove la rinascita spirituale affidandola a un manipolo di padri rosminiani. Sul finire del secolo, infine, ha inizio la grande opera di restauro guidata dal geniale architetto portoghese Alfredo de Andrade, che rimodella la Sacra nelle sue forme attuali.
“Era questa una costruzione i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell’abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano a strapiombo. Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità con la terra e con il cielo)”. Parola di Adso da Melk, alias Umberto Eco, scritta nelle prime pagine del “Nome della rosa”. A cosa può essersi ispirato l’esimio professore piemontese se non al formidabile spettacolo della Sacra di San Michele?
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