MODELLI ECONOMICI DINAMICI PER UN’ITALIA COMPETITIVA
                                  di Pierluigi Piromalli

     L’Italia, sempre più avvitata sugli interminabili e stucchevoli spettacoli cabarettistici di gossip politico, sta faticosamente facendo i conti con un’economia boccheggiante ed ingessata che, a causa della recessione su scala mondiale, sta affliggendo tutti i comparti produttivi ed il terziario. A questo si aggiunga la disastrata situazione del bilancio pubblico e la pressione fiscale alle stelle per comprendere come la situazione, dopo decenni di vacche grasse e di benessere diffuso grazie anche ad una congiuntura economica favorevole, tenda sempre più a debordare verso una realtà post industriale che non promette nulla di buono e prospetta scenari inquietanti soprattutto per la stabilità dell’occupazione.
     Dal mondo dell’economia quasi tutti gli addetti ai lavori concordano sul fatto che il Paese, al fine di uscire dalla fase di inerzia che soffoca la competitività delle imprese, debba ispirarsi a modelli sociali come quello tedesco, basato sull'export industriale e sugli investimenti pubblici rivolti alla ricerca e allo sviluppo. Si pone il problema di capire se questo modello sia oggi adattabile con successo alle imprese italiane e sia con esse conciliabile, ma ciò sembrerebbe difficile per una serie di motivi riconducibili ai peccati originali del sistema-Paese.
     Un primo ostacolo sta nel fatto che le aziende italiane patiscono un ritardo ultradecennale rispetto alla capacità produttiva delle omonime tedesche che, invece, hanno reso più flessibile il loro mercato del lavoro ed hanno sfruttato la delocalizzazione per ripensare le relazioni industriali. La battaglia solitaria di Marchionne sulla questione Mirafiori, affidata al referendum dei lavoratori con la mediazione delle parti sociali e con settori della Confindustria che continuano a privilegiare la contrattazione nazionale, è un esempio del ritardo nazionale sulle grandi questioni del lavoro che rallentano l’attività d’impresa.
     La seconda ragione è che la maggior parte delle imprese industriali italiane sono ancora sottodimensionate e culturalmente acerbe per poter pensare ad investire in tecnologia con l’obiettivo di crescere sui mercati in grande espansione. Il terzo motivo risiede, infine, nel fatto che il proliferare di leggi bavaglio e l’indecisione dell’azione di governo impediscono alle aziende di strutturarsi e di crescere numericamente; un caso emblematico è rappresentato, per esempio, dall'applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori la cui applicabilità, soprattutto in tema di licenziamenti, condiziona

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