ITALIA E IMPRENDITORIA: CRISI PROFONDA
di Pierluigi Piromalli
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È degli ultimi giorni la notizia secondo la quale la Ducati, uno dei marchi motoristici italiani più prestigiosi nel panorama internazionale, avrebbe suscitato un forte interessamento del gruppo tedesco Volkswagen, che vorrebbe cimentarsi, sia dal punto di vista agonistico sia da quello commerciale, anche nel mondo delle due ruote. Questa operazione, per ora esplorativa, fa capire quanto sia sbagliato considerare l’eventuale vendita della casa di Borgo Panigale come un semplice affare fra gruppi industriali privati. In realtà, la questione Ducati rappresenta solamente uno dei tanti esempi di come il mondo imprenditoriale italiano sia ormai proteso unicamente a monetizzare gli sforzi di decenni di grande tecnologia acquisita, di ricerca e di conquista dell’eccellenza, consegnando il prodotto in mano straniera e mortificando il mercato interno.
Tanti imprenditori si lamentano perché l'alta tecnologia emigra, perché le aziende italiane soffrono di un preoccupante nanismo, perdendo quote nel commercio mondiale. Sono però loro stessi che poi decidono, per primi, di abbandonare l'industria per rifugiarsi nelle comode rendite di posizione, oppure a trasferire la produzione nei più allettanti e remunerativi mercati dell’Est europeo o appaltarli addirittura nei paesi emergenti asiatici. L’esempio Ducati rappresenta, inoltre, l’indice sintomatico del sentire comune dell’imprenditoria: è disarmante assistere all’indifferenza e al silenzio che hanno accolto, fra gli industriali nostrani, la notizia della possibile cessione della casa emiliana. Visto l’aria che tira e considerato che in Italia non sembra esserci nessuno disponibile ad acquisire un’azienda che ha scritto la storia, ci si dovrà forse rassegnare a vedere il simbolo per antonomasia delle due ruote, quel Valentino Rossi che ha acceso gli entusiasmi di milioni di appassionati, sfrecciare su una moto tedesca dopo che per tanto tempo si è accarezzato il sogno del binomio Rossi-Ducati come trionfo dell’italianità. Ma tutto ciò appare inevitabile in un Paese nel quale regna la colpevole miopia di molti imprenditori, che preferiscono rivolgere lo sguardo verso altri lidi inveendo contro il malgoverno del Belpaese.
A voler interpretare il sentimento di una parte della collettività si dovrebbe constatare come forse sia meglio, allo stato attuale, che un’azienda sia rilevata da industriali lungimiranti, che siano in grado di garantire stabilità di occupazione e di investimenti piuttosto che finire nelle mani di qualche aziendalista mosso da finto sentimentalismo o patriottismo, ma pronto a svendere, a smembrare e a delocalizzare la produzione non appena ne intravede
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