mancanza di volontà ad investire, coniugata ad affarismo bieco e calcolatore, rivolto al guadagno e sordo all’investimento e alla ricerca.
     Negli ultimi trent’anni, l'Italia è riuscita nel difficile compito di disperdere un enorme patrimonio di competenze, con le quali, negli anni ‘70, primeggiava in molti settori industriali, sfidando con i propri prodotti le migliori aziende a livello mondiale. Oggi, le grandi imprese nazionali appaltano la produzione nei paesi a basso costo di manodopera, immettendo sul mercato prodotti di qualità medio-bassa certamente non confrontabili con quelli di altri partners europei (vedasi tedeschi tanto per fare un esempio), che possono contare sul sostegno di una saggia politica economica interna, sull’incentivazione della manodopera adeguatamente salariata e sulla valorizzazione delle competenze tecniche ed ingegneristiche. La logica conseguenza è che ben presto, salvo improbabili correzioni di rotta, non sarà solo l’Audi, che già possiede i prestigiosi marchi italiani Bugatti e Lamborghini, a mantenere tradizione e immagine del marchio “Made in Italy”, ma dovremo aspettarci altre invasioni di campo.
     Il problema fondamentale dell'Italia è la mancanza di cultura del lavoro e il connesso impoverimento della classe dirigente, che, essendosi ridotta a duellare per le spartizioni di potere sorrette da litanie televisive, non è più in grado di garantire prospettive a medio-lungo termine, lasciando campo libero a quelle pseudorealtà imprenditoriali figlie della criminalità organizzata e sostenute da una grande liquidità, sempre più funzionali ad un sistema perverso che le ha elette a nuove fabbriche del lavoro.

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