IL MISTERO DEI SESI DI PANTELLERIA: UNA SCOPERTA CASUALE
di Massimo Jevolella
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È proprio vero che a volte le scoperte, quelle grandi come quelle piccole, avvengono per una strana combinazione della curiosità e del caso. Fu in tal maniera che a Pierre e Marie Curie (Premi Nobel per la fisica nel 1903) si rivelarono le prodigiose virtù del radio. Milioni di gradini più in basso nella scala dell'importanza scientifica, anche a me capitò, in un'estate lontana, di compiere una scoperta che mi fruttò, se non il Nobel, almeno l'invito a tenere una lezione alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ciò avvenne nella primavera del 1994 e il testo della lezione, registrato dagli studenti, venne poi pubblicato da Tranchida Editori in un volume collettaneo dal titolo: “Abitare la soglia”.
Mi trovavo dunque in vacanza a Pantelleria e un giorno mi prese il desiderio di visitare, per l'ennesima volta, il Sese Grande, detto anche Sese del Re, che si trova sul lato nord-occidentale dell'isola, in mezzo ai campi più brulli, a breve distanza dalla strada costiera. Avevo cercato varie volte, negli anni precedenti, di apprendere da qualche testo di archeologia quale fosse il significato di quella bizzarra costruzione megalitica, dalla vaga forma di panettone ovoidale, piuttosto ben conservata nonostante l'età millenaria e il vandalismo dei ladri che negli ultimi lustri le avevano sottratto alcune camionate di pietre dalla parte sommatale, ma le più serie tra le guide archeologiche della Sicilia, come quella di Margaret Guido pubblicata da Sellerio nel 1978, ignoravano semplicemente l'argomento.
Lo studioso Paolo Orsi, che alla fine dell'Ottocento aveva calcolato la presenza di ben 57 sesi a Pantelleria, non azzardava ipotesi sulla loro funzione e i testi dei più famosi archeologi siciliani, da Luigi Bernabò Brea a Vincenzo Tusa, si limitavano a inquadrare i sesi dell'antica Cossyra (così i greci chiamavano l'isola oltre duemila anni fa) nella tipologia dei “tumuli sepolcrali a terrazze”, edificati tra i 5.000 e i 7.000 anni fa da un non meglio identificato popolo neolitico di origine probabilmente africana. In parole povere: della vera funzione dei sesi non si sapeva quasi nulla e persino l'origine del loro nome era del tutto ignota.
Quel giorno, dunque, mi venne l'idea più banale del mondo: fare con calma il giro del Sese Grande, osservarlo con attenzione, scattare magari qualche fotografia. Bisognava andarci al tramonto, per non rischiare un'insolazione. Ed eccolo lì, quel goffo cupolone dalla pianta ellittica, solitario tra gli sterpi secchi e le capre e quasi mimetizzato nel contorno rovente di muretti a secco e di terreni
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