A noi serve qualcosa che parli una lingua nuova, che abbia più parole
che pallottole. Tanti linguaggi, pochi colpi, quelli necessari. A noi serve pilotare
le gare d’appalto con la leggerezza allegra di un’impunità certa, farci
finanziare le nostre imprese da quella manna che sono gli aiuti di Stato o i
soldi dell’Europa. A noi serve un salotto dove ricevere gente, e un servizio
buono per i pranzi che vogliamo organizzare. Un corso veloce di inglese e
una stretta di mano di quelle che facciano male. Noi non siamo un semplice
ricambio generazionale, siamo una mutazione, l’evoluzione. Vi lasciamo il
mito, la caccia alle streghe, la letteratura, le storie raccontate in cerchio per
farvi sentire più coraggiosi. Ci prendiamo il resto. Ci prendiamo tutto. Noi
parliamo la lingua dell’antimafia, perché ci conviene. Siamo dentro l’antiracket,
perché ci guadagniamo. Non abbiamo politici su cui puntare come alle
corse dei cavalli, perché ci siamo comprati il maneggio. Non abbiamo regole,
perché siamo noi la regola.
«Per non morire di mafia» è il vostro comandamento. Sapeste che vita
state vivendo, invece… Vi arrabattate a polemizzare su sentenze,
reati, ordinanze,
vi accusate l’un l’altro. E vi dimenticate che nel frattempo è venuto
crescendo un, come possiamo dire, contesto. E il contesto, come diceva
Sciascia, è assai influente.
Siamo il Paese che ha combattuto la mafia. Anche noi. La mafia fa schifo.
Anche per noi. L’abbiamo masticata, divorata, ingoiata. Metabolizzata.
E adesso la mafia siamo noi.
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