Yoshimoto accarezza un tema censurato ai nostri giorni; è proprio questa censura a rappresentare un problema della società moderna. Non c’è più spazio da dedicare alla fine della vita umana. È il grande tabù, relegato a un dolore solo interiore e non manifesto, conseguenza inevitabile della solitudine umana. Il dramma della morte è dovuto alla mancanza del senso di una famiglia, di una continuità. Un tempo, per le grandi famiglie, la morte non era un avvenimento inaspettato, ma era naturale, era in un certo senso giusto, non portava tutto questo dolore: era una rigenerazione, una fenice che rinasceva; l’importante era la continuità della famiglia stessa. Nella società moderna, le famiglie tendono a disgregarsi, a non avvertire un senso di crescita, di futuro. È da questo che deriva il dramma della morte, dell’individuo solo con se stesso e alle prese con la sofferenza della fine, una fine totale e disperata.
Attraverso il coraggio di Mikage, tuttavia, attraverso la sua capacità di ricreare quello che ormai aveva perso, il libro offre una speranza, una soluzione, seppur relativa, al problema della morte come dramma insuperabile. Con la morte non tutto è perduto, è possibile trovare un senso anche di fronte ad avvenimenti dolorosi eppure naturali. E’ possibile per ognuno guardare avanti, fiduciosi e sereni, attraverso la semplicità delle cose che ci circondano, attraverso i “tocchi” di colore, attraverso la serenità profusa da una cucina dal sapore familiare, con gli oggetti riposti in bell’ordine e pronti per essere usati.
“Le cucine nei sogni. Ne avrò infinite. Nell’anima, nella realtà, nei viaggi. Da sola, con tanti altri, in due, in tutti i posti dove vivrò. Sì, ne avrò infinite”, dice Mikage nella prima parte del romanzo, esprimendo il vero significato di “Kitchen”. La cucina rappresenta un ricordo: una stanza o un oggetto, infatti, non hanno valore in sé, ma in base alla carica affettiva che le persone attribuiscono loro, alle emozioni e ai ricordi che possono rievocare. Così gli oggetti, ma vale anche per le persone, pian piano, da freddi e indifferenti, diventano familiari, donando un senso di tranquillità che sarà sempre lì, immutato, ogni volta che li guarderemo. Essi assumono un significato e diventano preziosi, perché permettono di mantenere un contatto con qualcosa che il tempo e lo spazio (e la morte) possono separare.
La consapevolezza della morte di quell’heideggeriano non-esser-più, che si scaraventa addosso a noi con la sua forza, inaspettata e prepotente, crea sì, angoscia, ma al tempo stesso permette anche di valorizzare quello che c’è oggi attorno a noi, quello che spesso si considera scontato, poiché sempre presente. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva la volpe al piccolo principe di Saint-Exupéry. Forse solo lo sguardo consapevole di chi ha vissuto una perdita importante può far risaltare i veri colori dell’esistere. Gli stessi colori, dipinti con freschezza giovanile e ingenua, che Yoshimoto sembra voler mostrare alle nuove generazioni e con i quali vuole aiutare a valorizzare quanto di profondo, eppure fuggevole e nascosto, caratterizza la nostra vita.
Francesca Redolfi
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