succede nel mondo dell’arte. La mostra è composta da 200 lavori, tutti di grande qualità, mischiati con cross-over da far perdere l’equilibrio anche a Spider-man e forzatamente legati, salvo rari casi, al filo rosso del futurismo o dei futurismi possibili nell’arte.
Visitando la mostra, l’impressione è di mangiare dell’aragosta con la nutella, innaffiata con del barolo, e per dessert castagne con il salame e maionese, tutti gusti che presi singolarmente sono squisiti e ottimi, ma consumati nello stesso pasto fanno venire la voglia di fare una dieta. La parte riguardante l’architettura, con progetti che vanno da Sant’Elia a Massimiliano Fuksas, mi è sembrata la più convincente e meno pasticciata, come pure la sezione “La società dello spettacolo” di cui fa parte di diritto anche questa mostra-carrozzone; il resto è francamente debole e superficiale; mi dispiace dirlo e basta leggere tutte le volte che ho parlato bene della GameC per credere quanto sia in buona fede il mio giudizio. Non vedo cosa centri col futurismo, che invocava smisurata fiducia nella tecnologia, nel progresso, nell’azione, nell’ardire e nell’ardore esistenziale, con il lavoro di un McCarthy “Un Orso di peluche defecante” ottimo artista, intendiamoci, ma che di progressista o futurista ha ben poco, tanto per citare un esempio, a meno che i curatori, Di Pietrantonio e Rodeschini, non abbiamo accostato alcuni lavori ad altri proprio per sottolineare la distanza dal futurismo di certe correnti dell’arte contemporanea e mi sia sfuggito.
Una cosa va detta: il rapporto tra spazio e opera d’arte, così importante per la riuscita di una mostra, purtroppo, nelle sale della GameC, è molto penalizzante e questo certo non aiuta con duecento lavori di grandi dimensioni, quindi o si espongono meno opere o sarebbe meglio cercare sedi alternative quando si intende allestire esposizioni così ambiziose. Detto questo, c’è un’ aspetto che va considerato e sottolineato: le mostre devono creare dibattito e confronto, sempre, quindi questa farà parecchio rumore e muoverà certamente pubblico normalmente distante dall’arte contemporanea; ciò è positivo per la città e per l’arte in genere.
Credo che provocare delle reazioni forti fosse previsto e voluto da quel “ragazzaccio” di Giacinto Di Pietrantonio, che, ne sono certo e di questo gliene sono personalmente grato, si diverte un mondo a sorprendere ed a smuovere le coscienze di tutti i benpensanti bergamaschi, i quali, della mostra non avranno capito un gran che, ma all’inaugurazione saranno stati tutti impettiti e plaudenti pronti a scroccare il catalogo gratis e a mangiare pasticcini, pronti a tornare nelle loro case etno-chic a raccontare agli amici “Io c’ero”. Così va il mondo.
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