Lucio Fontana, parlami un po’ del tuo rapporto con lui.
“Come ti ripeto, Fontana era il Grande Maestro di tutti noi giovani artisti: Castellani, Bonalumi, Piero Manzoni, Dadamaino, Dangelo, Arturo Vermi, anche lui bergamasco come me ed altri che la sera ci trovavamo al Bar Giamaica di via Brera, a passare la serata davanti ad una bottiglia di Barbera, che chiaramente non pagavamo mai, a parlare di tutto. Mi chiedevi di Fontana… Nel Dicembre del 1959 organizzai una mostra a Bergamo alla Galleria La Torre sul Sentierone, nella quale esposero insieme a me Zilocchi e Pievani, entrambi artisti bergamaschi che all’epoca frequentavano Milano; Fontana era per i giovani, con i quali legava di più rispetto agli artisti della sua generazione. Nessuno di noi vendette un quadro ed agli amici bergamaschi ai quali consigliai di comprarne uno di Fontana per 60.000 lire dico oggi solo che probabilmente avrebbero fatto l’affare della loro vita, in quanto le opere di Lucio costano oltre il milione di euro adesso. Ma tant’è che la storia non si fa né con i se né con i ma…”
Parliamo del tuo lavoro? Carrara, quello dei fili…
“Dopo aver partecipato per tutti gli anni cinquanta e sessanta a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, tra le quali il premio Bergamo, allestito al Palazzo della Ragione, e alla XXI Biennale Nazionale di Milano, nel 1959, aderendo ad una pittura di matrice astratto-informale, mi sono reso conto che quel mondo stava morendo e che con l’esplosione della Pop Art americana alla Biennale di Venezia del 1964, fare certa pittura divenne fuori moda e per tutti gli anni sessanta gli artisti cercarono di fare arte tecnicamente riproducibile.” Quindi nacquero i quadri con i fili? “Non esattamente, quelli vennero dopo. Negli anni sessanta ho vissuto una crisi personale, che mi ha visto mettere in discussione quanto fatto in precedenza, l’informale era ormai divenuto sterile maniera in tutta Europa, abbandonai pertanto i tradizionali strumenti del dipingere e identificai, nel recupero della manualità artigianale, un nuovo linguaggio da contrapporre all’arte facilmente riproducibile, non che non fosse piena di contenuti, intendiamoci, ma distante dalla mia visione dell’arte che guarda all’esistenza e alla storia universale dell’uomo, non ad un suo particolare momento. Iniziai così la storia dei fili, intessuti e trapunti su tele dalle grandi campiture monocrome. I titoli di quelle prime opere erano: terra e fili, fili, campo e fili, fili sulla terra ed erba, erba e terra e fili, quasi a sottolineare una voglia di natura, di distacco, volevo fare un lavoro più concettuale ma artigianalmente prezioso allo stesso tempo, mentre la voglia di tornare a Bergamo era sempre più forte.”