IL SETTIMO PAPIRO
                                 di Wilbur Smith

     C’è un romanzo, tra i numerosi scritti da Wilbur Smith, che tra gli appassionati dello scrittore viene quasi unanimemente considerato come “il” romanzo per eccellenza, pari soltanto a “Il dio del fiume”: è “Il settimo papiro”. La trama è degna di una sceneggiatura d’azione hollywoodiana: una giovane e bella archeologa angloegiziana, Royan Al Simma, sta studiando insieme al marito Duraid, anch’egli egittologo, gli strabilianti papiri da loro scoperti nel corso di alcuni scavi in Africa. Il settimo dei preziosi documenti parrebbe riferirsi all’ubicazione della tomba del faraone Mamose, la cui vicenda è narrata negli altri rotoli rinvenuti; il problema è che Taita, lo scriba che ha redatto quei papiri più di 3000 anni prima, dà indicazioni misteriose e criptiche, il cui significato resta un arcano anche per la preparata dottoressa. Proprio quando la coppia di studiosi sembra pervenire a un parziale risultato, l’omicidio di Duraid e il furto dei papiri sconvolgono la vita di Royan, costretta  a rifugiarsi in Inghilterra dalla madre e, per recuperare i manoscritti, a contattare l’affascinante collezionista Nicholas Quenton-Harper, indicatole in punto di morte dal marito come unica possibilità di ritornare in possesso degli scritti di Taita. Dopo l’iniziale diffidenza reciproca, i due si troveranno a dover collaborare ed a fidarsi l’uno dell’altra, per portare a termine il gioco iniziato millenni prima da Taita ed uscire indenni dalle gole del fiume Abay, nell’inospitale terra africana dove condurrà la ricerca. Anche se non saranno soli…
     “Il settimo papiro” è una sorta di sequel de “Il dio del fiume”; se in quest’ultimo si racconta la storia di Taita, nel primo Smith si autocita, facendo diventare “Il dio del fiume” il perno attorno a cui ruota la storia di Nicholas e Royan, che nella finzione sarebbe proprio la studiosa che avrebbe fornito a Smith il materiale per scrivere “Il dio del fiume”. Detto così suona complicato, ma basti sapere che è un bell’esempio di metaletteratura: un po’ come quando in una scena teatrale i personaggi mettono in scena un altro spettacolo, che risulta così essere un “teatro nel teatro”. Il “cast” messo in campo da Smith è notevole: sorvolo sulla scelta furbetta dei due protagonisti, quasi da telenovela nel loro essere belli, intelligenti, onesti e, ovviamente, destinati ad una struggente storia d’amore, e plaudo al resto dei personaggi, comprimari ma molto più credibili e sfaccettati.
     Il guerrigliero Mek Nimmur e la sua colta compagna Tessay sono le bocche attraverso cui Smith racconta un’Africa diversa da quella gloriosa e

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