concluso a Sansepolcro un lavoro su Pier della Francesca (con in programma una prima mostra nella cittadina toscana entro qualche mese), ha anche presentato un suo libro su Chiavari e presenziato all’uscita del libro di Tiziana Turzio dedicato alla sua lunga vita professionale (editore Bruno Mondadori).
     Gianni Berengo Gardin non si è mai convertito al digitale. «Non è vero che la pellicola sia morta», dice, «e non è vero che sia difficile trovarne. Pochi sanno, per esempio, che Kodak ha presentato lo scorso anno due nuove pellicole. Vero è invece che il digitale muove interessi enormi con conseguenze altrettanto enormi, e cerca di presentarsi come l’unico modo rimasto per fare fotografia». Il suo giudizio sull’irruzione di questa nuova tecnologia è fatto di luci e di ombre. «Il digitale ha avvicinato molte persone alla fotografia, e questo è bene. Ma ha anche cambiato la mentalità dei giovani, e questo è un disastro. C’è in giro la pubblicità di un’azienda produttrice di apparecchi digitali che dice: prima scatta, poi pensa. Io ho sempre insegnato che prima bisogna pensare e poi, se è il caso, scattare la fotografia. Scatta, scatta, che poi c’è Photoshop a risolvere tutti i problemi. Ma dov’è il tuo progetto di lettura della realtà? Dov’è il segno di ciò che guida e accompagna il tuo occhio nel dare testimonianza di ciò che vede? Ha davvero senso rubare istanti colti senza alcun senso? Certo in alcune attività giornalistiche la tecnologia digitale offre una straordinaria semplicità di spedizione, e questo consente una informazione più tempestiva. Il sistema digitale permette poi, contrariamente alla pellicola, di cambiare la sensibilità alla luce a ogni scatto. E forse, per il colore, offre anche migliori risultati. Ma io, tranne qualche eccezione per il Touring Club e l’Istituto Geografico De Agostini, e limitatamente al settore dei paesaggi e dell’architettura, il colore non lo uso; e per il bianco e nero, la pellicola e un buon lavoro in camera oscura fanno davvero la differenza. Senza contare che di questo passo, considerato che dopo una decina d’anni i file digitali subiscono un decadimento fatale, il rischio è che tra qualche tempo ci si ritrovi senza archivi, con una memoria storica, per usare un termine moderno, ineluttabilmente resettata».
     Pellicola dopo pellicola, negativo dopo negativo, stampa dopo stampa, con la sua inseparabile Leica, è difficile dire anche per l’autore quali siano i reportages che più gli sono rimasti nel cuore. Gianni Berengo Gardin cita la sua indagine sui manicomi, condotta con Carla Cerati ai tempi della “rivoluzione” psichiatrica di Franco Basaglia; o il libro dedicato a Luzzara, il paese natale di Cesare Zavattini; o ancora le ampie raccolte di immagini sulla condizione e la vita degli zingari, sulle cooperative sociali di Genova, sui villaggi indiani. «Questa mostra alla Galleria Elleni di Bergamo», aggiunge, «costituisce quella che io considero la

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