IL SIGNOR XXXX
                                  di Emanuela Fornoni

     L’altro giorno mi sono vergognata di me stessa. Sono in ufficio e la mattinata è, nella sua ormai consueta freneticità, normale. Suonano alla porta, sento la mia collega alzarsi ed andare ad aprire. Una voce da uomo si presenta: “Sono XXXX c’è Emanuela?” Io dalla mia postazione sento distintamente e mi dico che quel cognome non mi è nuovo, già non mi è nuovo, XXXX... sì ecco chi è! Può davvero essere lui??? Sono decisamente sorpresa e, anticipando la richiesta della mia collega, mi alzo e vado verso la porta. Chiedo: “Il Signor XXXX? Giuseppe XXXX?” Sempre più incredula, mi conferma che sì, è proprio lui. Faccio, ora, per voi, un doveroso passo indietro e torno al lontano 2002.
     A quel tempo, lavoricchiavo per un’altra testata giornalistica, ero giovane, alle prime armi. Per fare qualcosa di eclatante mi recai in carcere e intervistai un detenuto. Ovviamente, prima, avevo chiesto le dovute autorizzazioni. Passai lì una mattinata e l’uomo che mi trovai di fronte mi lasciò molto perplessa in quanto il suo aspetto da Babbo Natale celava un contrabbandiere di armi che aveva fatto dentro e fuori dal carcere dall’età di diciotto anni. Quando l’ho incontrato io ne aveva ormai quasi una sessantina e stava finendo di scontare un’ultima condanna a tredici anni, gliene mancavano sette. Eppure, nonostante tutto, era riuscito ad avere delle relazioni con alcune donne, si era anche sposato, aveva avuto un figlio, aveva messo da parte dei soldi, era proprietario di un terreno e coltivava un suo personalissimo sogno per il suo futuro. Questa “normalità” inframezzata dal carcere mi aveva colpito e me lo aveva fatto apparire come un uomo che avesse vissuto e vivesse... come dire... tra parentesi: tra una parentesi e l’altra del carcere era riuscito a farsi una vita “normale”, o, se preferite, tra una parentesi e l’altra della vita “normale” aveva conosciuto il carcere, come volete... Comunque, - il brutto vizio di divagare non lo perdo - avevo pubblicato l’articolo e avevo inviato al mio intervistato copia della rivista in carcere.
     Credo che le mie riflessioni non gli siano piaciute troppo perché non ricevetti da lui neanche un biglietto né di ringraziamento né di insulti... in compenso però mi scrisse un suo vicino di cella che aveva visto l’articolo e, poiché scriveva poesie e ne aveva stampate anche in volumetti, me li inviava con una breve lettera e con la richiesta, velata, di poterne pubblicare qualcuna. Alcune poesie erano dedicate alla figlioletta dell’autore, affetta dalla sindrome di Down, e toccarono non solo il mio cuore, ma anche quello del direttore che ne pubblicò

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