L’ITALIA E IL RAZZISMO
                                  di Pierluigi Piromalli

     I recenti avvenimenti accaduti a Rosarno, in Calabria, culminati in una guerriglia urbana che ha messo a ferro e a fuoco la cittadina reggina con conseguente “caccia allo straniero”, ha sollevato il delicato problema della convivenza tra popolazione residente ed immigrati. Se negli anni cinquanta il Paese era sollecitato da vivaci dibattiti sulla questione meridionale e conviveva con il massiccio movimento migratorio della popolazione che dal sud della penisola si dirigeva verso le aree più industrializzate del settentrione, oggi il problema si è visualizzato verso il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria e comunitaria dai Paesi dell’area UE. I fatti di Rosarno, a detta di qualcuno già annunciati ma lasciati colpevolmente passare sotto il silenzio dei media, rappresentano la classica punta dell’iceberg della difficile integrazione degli stranieri nel tessuto sociale ed economico del Paese.
     In Calabria, inoltre, regione alle prese con problemi strutturali e di sovrapposizione della criminalità organizzata alle Istituzioni, la situazione è più complessa e delicata rispetto ad altre aree del Nord, ove la maggior parte delle comunità straniere si sono stabilite ed anche integrate, potendo confidare in una stabilità lavorativa che consente loro di pianificare una vita decorosa. Ovviamente, e non poteva essere altrimenti, la veemente e cruenta protesta di piazza ha sollevato un polverone di reazioni non solo politiche e di ordine pubblico, ma soprattutto di carattere umanitario, innescando una catena di solidarietà che ha contagiato anche l’opinione pubblica, spingendo pure l’Autorità Ecclesiastica ad esprimere forti condanne per il dilagante razzismo che starebbe attraversando il Paese.
     Si è detto da più parti che il ricorso alla violenza è fatto sbagliato ed inaccettabile anche se gli episodi accaduti dimostrano che proprio il linguaggio della violenza, così terribilmente penetrante e convincente, crea le condizioni per i cambiamenti e per gli interventi istituzionali. Insomma, duole ammetterlo ma senza la guerriglia tra le opposte fazioni e le forze dell’ordine, raccontate dal freddo occhio delle telecamere, non ci sarebbe stata nessuna presa di coscienza e nessuna necessità di riconfigurare la gestione del problema.
     Essere costretti a ragionare in questi termini è sicuramente preoccupante, soprattutto se a farlo è una civiltà compiuta che ha il dovere di intercettare i disagi collettivi, di qualsiasi natura e genere, e gestirli con lungimiranza onde evitare pericolosi rigurgiti di insofferenza.

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