SE IL FATTORE “B” DIVENTA UNA COLPA
                                     di Valerio Bettoni - Consigliere regionale

     Le situazioni che stiamo vivendo, e qualche volta anche subendo nei vari campi, dalla politica allo sport, dimostra sempre più che viene avanti un tempo che richiederà sempre più schiene diritte. Che significa anche coerenza di visione e di azione, andando oltre il perbenismo, la superficialità e il calcolo. Nella nostra politica abbiamo ampia riprova di ciò, di questa necessità di riappropriazione di ruolo, di personalità, di identità bergamasca vera. A tale proposito, vorrei richiamare l’attenzione sul rischio anche di certe tendenze in atto negli ultimi anni.
     Nel mondo i bergamaschi sono da sempre molto ambiti per le loro riconosciute qualità di persone preparate, intraprendenti, serie, oneste e soprattutto capaci in tutti i campi, dal vertice che raggiungemmo con Papa Giovanni al geniale scultore suo amico, Giacomo Manzù, da Andrea Viterbi nelle nuove tecnologie all’ambasciatore a Washington, Giulio Terzi di Santagata. C’è tutta una immensa folla di nomi grandi e umili, penso alle decine di migliaia di lavoratori, dagli intellettuali agli operai che hanno onorato e onorano in Italia e in tutti i continenti le migliori qualità della nostra terra.
     Proprio questo confronto con realtà diverse, popoli e Paesi lontani, ci hanno dato quell’apertura di orizzonti – nostro patrimonio da secoli e non dell’ultima ora – decisiva per affrontare le sfide della globalizzazione. Noi eravamo già allenati. Siamo diventati da anni terra di immigrazione, non solo di stranieri. Il confronto è sempre occasione e motivo di arricchimento culturale e umano. Dobbiamo però stare anche molto attenti a non indebolire, per svariati motivi, la nostra solida e antica identità e a non scoraggiare – per mania del nuovo e dell’esterno – le nostre intelligenze locali, le indubbie competenze, formazioni e bagagli di esperienze messe paradossalmente in condizione di cercare altrove posti e risposte che questa terra potrebbe dare e invece nega. Questo produce impoverimento per la realtà locale: non siamo molto diversi da quando nell’Ottocento e nel primo Novecento abbiamo esportato manodopera perché qui si faceva la fame.
     Oggi importiamo persone e intelligenze quando ne abbiamo in abbondanza tra noi e non vengono valorizzate anche per preferenze di comodo e perché più inclini all’obbedienza. È qui che voglio – e dobbiamo – tornare alle schiene diritte, anche nel coraggio di scelte che antepongano la loro preparazione al servizio e al servilismo di potentati del momento.

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