IL POZZO DI SAN PATRIZIO, DA ORVIETO ALL’IRLANDA
                                  di Massimo Jevolella

     Avete mai sentito questa espressione: “Profondo, o misterioso, come il Pozzo di San Patrizio”? Quasi certamente sì. Perché si tratta di una frase proverbiale che affonda le radici in un’antica leggenda. E cosa c’è di meglio che immergersi nelle cronache del passato per conoscere una storia così affascinante? Il nostro racconto, a dire il vero, dovrebbe cominciare dall’Irlanda, invece siamo in Italia, ad Orvieto, cinque secoli fa.
     È la vigilia di Natale del 1527. Papa Clemente VII (al secolo Giulio de’ Medici) s’aggira nervosamente per le gelide sale del palazzo apostolico, l’aria cupa, la testa bassa, le mani contratte, le dita intrecciate a esprimere il nodo dell’angoscia che gli opprime il cuore. La barba incolta e grigiastra, lunga di sette mesi, gli scende dal mento fino a lambire il petto: non se la taglia, in segno di lutto, dai giorni terribili del Sacco di Roma, da quelle orrende due settimane di maggio che hanno visto scatenarsi nella Città Eterna la furia barbarica dei lanzichenecchi. E ora, esule a Orvieto, ripensa con amarezza alla notte recentissima, quella del 7 dicembre, quando, travestito in abiti da plebeo, dopo aver sborsato 112 mila ducati di riscatto, è riuscito finalmente a lasciare Castel Sant’Angelo e a fuggire da Roma.
     Orvieto è un rifugio sicuro? Niente affatto, pensa il papa e il pensiero diventa ossessione. Perché un dubbio lo tormenta: e se gli alemanni di quel Frundsberg maledetto tornassero alla carica? Se gli venisse la voglia di assalire anche Orvieto? Quanto si potrebbe resistere ad un assedio, tra le mura di questa cittadella arroccata su di un piccolo e arido altipiano? Si tratta di qualcosa di vagamente simile alla situazione vissuta quindici secoli prima dagli zeloti ebrei asserragliati nella fortezza di Masada sul Mar Morto: e anche questo è un tema affascinante sul quale mi riprometto di tornare in un prossimo racconto di “Viaggi e misteri”.
     Il papa ne parla con i suoi consiglieri. Gli dicono: «L’unico vero problema è l’acqua. Le falde sono a valle, e se qui non piovesse, e gli alemanni ci stringessero d’assedio, saremmo perduti». Giulio de’ Medici non vuole sentire altro. Ha subito un’idea. Conosce il genio architettonico e ingegneristico di Antonio da Sangallo il Giovane, l’artista fiorentino che a Roma, in oltre vent’anni di attività, ha creato opere come le chiese di Santa Maria di Loreto e di Santo Spirito, il Palazzo Farnese e la Zecca. Il papa è sicuro che il Sangallo saprà risolvere il problema e l’illustre architetto, che nel 1520, succedendo a Raffaello

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