PRAGA
Il vento della globalizzazione non ha cancellato l’antico mistero del Golem
di Massimo Jevolella
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Si continua a dire che Praga è una “città magica”, ma questa affermazione è sempre così vera a tanti anni di distanza dalla pubblicazione del famoso libro di Ripellino? (Angelo Maria Ripellino, “Praga magica”, Einaudi 1973, ultima ristampa nel 2002). Per certi aspetti no. Sono stato a Praga di recente, in più di un’occasione, e ho dovuto constatare che oggi questa città straordinaria è diventata una grandiosa officina omologata del turismo mondiale di massa. È rimasta bellissima, ovviamente, ma tra lifting architettonici, viaggi organizzati, negozi di stilisti e fast-food, ha perso una notevole parte del suo fascino originale.
La grande e vorticosa mutazione ebbe inizio nel 1990, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, ma cos’era Praga prima del 1989, ossia prima che svanissero le barriere fra le democrazie occidentali e i Paesi del blocco sovietico? Ebbene, un piccolo frammento di quel mondo perduto è rimasto nella mia memoria per esperienza diretta e lo posso testimoniare.
Passai una settimana a Praga nel settembre del 1987. Non in albergo, ma ospite (pagante) nell’appartamento di una coppia di giovani sposi che sognavano ancora il “socialismo dal volto umano”, stroncato dai carri armati del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968. Era una vecchia casa austera di epoca mitteleuropea: di quel tempo, tanto per intenderci, in cui una vasta fetta dell’Europa, da Cracovia a Budapest e fino a Trieste, passando appunto per la Boemia e la Moravia, rientrava ancora nei confini dell’impero asburgico e gravitava intorno allo splendore barocco di Vienna. Furono giorni indimenticabili. Praga sembrava una città in stato di abbandono. Tutto era grigio, vuoto, silenzioso. Io ero in compagnia di un altro giornalista, mio collega al “Giornale” di Indro Montanelli. Ci aggiravamo sotto una pioggia insistente da Stare Miasto a Mala Strana, dal Ponte Carlo al Castello. Camminavamo come spaesati in mezzo a quelle meraviglie struggenti, tra edifici superbi coperti da una patina nera che sembrava destinata a gravare su di essi in eterno. Restavamo sbalorditi davanti alle misere vetrine dei negozi che esponevano oggetti inconcepibili rispetto ai nostri standard occidentali. Ci divertivamo a riconoscere i rarissimi turisti occidentali non dalle loro facce o dalle giacche, ma tenendo lo sguardo rivolto verso il basso e osservando le scarpe della gente: quelle dei praghesi erano infatti tutte uguali, lisce come plastica e color colla da pacco, assolutamente diverse dalle nostre.
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