potente mago. Un mistico cabbalista, un sapiente che conosceva i segreti del cielo e della terra. E tutti sapevano anche che Rodolfo era pazzo per la magia. Era talmente ossessionato dall’osservazione dei segni e dei messaggi dell’occulto che non muoveva un passo e non prendeva una decisione se non dopo avere ascoltato il parere degl’indovini. Eppure, da qualche tempo Rodolfo sembrava un po’ tiepido nei confronti dei soliti maghi di corte. Che cosa gli mancava dunque? A che cosa pensava?
     Alcuni cortigiani notarono che spesso l’Imperatore si poneva a una finestra del suo alto palazzo a guardare lontano, verso il quartiere della città vecchia in cui vivevano i giudei. In quel triste ghetto, migliaia di sventurati campavano alla giornata e pregavano, sognando la Roccia di Gerusalemme. Vivevano separati dal resto del mondo, ma la loro triste condizione di eterni esiliati era illuminata ora non solo dalla speranza del ritorno alla Terra Promessa, ma anche dalla luce spirituale che emanava dal loro venerato rabbino. E certamente Rodolfo, osservando le case del ghetto, tra sé pensava: «Qual è il segreto di Rabbi Löw?». Perché girava la voce, a Praga, che la magia del rabbino avesse prodotto infine un evento inaudito e terribile. Una vera sfida alla potenza creatrice di Dio.
     Jehuda Löw ben Becalel era nato a Worms o forse a Poznan, tra il 1512 e il 1520. Dal 1573, dopo avere esercitato il ministero rabbinico nelle sinagoghe di Mikulov e di Poznan, era diventato il capo della comunità ebraica di Praga. Una notte del 1580 (così narravano le voci del ghetto) era sceso con due discepoli sulla riva della Moldava, il fiume che attraversa Praga e che, nonostante il nome, non ha nulla a che vedere con il lontano Stato della Moldavia, e lì, col loro aiuto, aveva modellato un uomo di fango. L’intento era quello di dare vita ad un gigante invincibile, capace di difendere gli ebrei dai soprusi e dalle violenze dei cristiani. Dopo una serie di riti e di formule arcane, il rabbino aveva infilato nella bocca del fantoccio un foglietto di pergamena su cui era scritto lo “shem”, ossia il tetragramma ebraico dell’impronunciabile nome di Dio. Come d’incanto, in quell’istante l’uomo di fango aveva preso vita e s’era alzato in piedi, pronto a seguire Rabbi Löw e ad obbedirgli fedelmente. Gli fu dato il nome di Jossile Golem. Era grande, grosso e dotato di una forza sovrumana, ma non sapeva né parlare né emettere alcun suono dalla bocca. Quando Perl, la moglie di Löw, se l’era trovato fra i piedi a casa, il rabbino l’aveva subito rassicurata dicendole: «È un povero muto, un po’ scemo ma buono. Forse è uno straniero, l’ho incontrato per strada e mi ha fatto pietà. Ti aiuterà nelle faccende domestiche e così anche tu sarai contenta».

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