spero che i frutti della loro rivoluzione possano davvero consolidarsi in un processo di democrazia».
Nel suo breve tessuto di racconti, il libro di Kaha riesce a stupire, a disorientare. Si parte da una Somalia antica, da una grande famiglia di venerati anziani, di nonne e matriarche, di animali simbolici, di misteri e colori che fortemente riecheggiano il mito di un Islam poligamico e di un’Africa scomparsa. Ritratti che colpiscono: nonna Xaliima, la “generalessa generosa”; nonna Xaawa, “portentosa, regale e aggressiva”, che il giorno delle nozze ha obbligato il marito, incredulo, a una lotta rituale niente affatto scherzosa; poi nonna Suuban, “la giusta”, e la scelta del suo nome, Kaha, che significa “luce del sole”, e una vita addolcita dalle lunghe conversazioni serali e dal profumo del tè. All’improvviso, il precipizio. Il Paese si spacca in clan e sottoclan. Mogadiscio “trabocca di armi e di rancore”, ma il racconto di Kaha schiva con pudore la catastrofe.
Ora è l’Italia a dominare la scena e qui avviene l’assurdo: la giovane somala cade nella centrifuga della burocrazia, dei pregiudizi, dei “fraintendimenti” (spesso divertenti, altre volte no, come quando viene scambiata per una prostituta), che danno il titolo al libro.
Potrebbe essere l’inizio di una nuova letteratura picaresca, che sciolga un po’ nel sorriso anche il dramma della nuova immigrazione?
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