si possa fare qualche cosa per comunicare; dobbiamo innanzitutto mettere il paziente in condizioni di parlare e di essere ascoltato, solo allora saprò che il suo parlare è un parlare comunicativo oppure no; anche se il soggetto comunica con un’insalata di parole incomprensibili, ascoltandolo sempre scopriremo che ogni tanto dice cose significative.”
Ci parli ora di lei e del suo percorso accademico.
“Mi sono Laureato in medicina e già da studente ho frequentato i gruppi Balint, nei primi anni ’70; il medico Michael Balint, psicanalista ungherese, era venuto a Milano a presentare un suo metodo di formazione per i medici sulla ‘formazione alla relazione medico paziente’ e da lì sono nati poi dei gruppi che io ho seguito da giovane studente medico per anni. Quello dell’attenzione tra medico e paziente è stato un filone conduttore di tutta la mia vita, da lì ho fatto un percorso che è sempre stato nell’ambito della medicina, ma, parallelamente alla formazione psicoterapeutica, ho conseguito anche una specialità in psichiatria e con il passare degli anni la mia attenzione si è focalizzata dalla relazione, che è impalpabile, non si descrive ed è una cosa difficile da afferrare, a qualcosa di più concreto come la parola. La relazione tra le persone è fatta di parole, tutto il mio lavoro di ricerca adesso è incentrato sulla parola scritta o meglio trascritta, nel senso che durante la relazione, quella reale, come quella che avviene adesso nel momento in cui ci parliamo, c’è un contesto, una storia, una sua storia personale ed io ho la mia, ci sono delle emozioni, vedo lei attenta io sono contento di essere qua a parlare con lei. Ecco, tutto questo è extraverbale, naturalmente nella vita quotidiana sia personale sia professionale noi teniamo conto di tutto questo.”
“A livello di ricerca e di sperimentazione io cerco di spogliare la parola da tutto il resto, di spogliarla dalla storia, dalle emozioni e dal contesto per concentrarmi sulla parola. Questo l’ho imparato dal mio ultimo maestro, Giampaolo Lai, psicanalista di Milano, fondatore dell’approccio conversazionale, il quale in sostanza mi ha insegnato queste tecniche. Lui viene da una formazione psicanalitica che ancora utilizza; la sua originalità è di focalizzare tutta la sua attenzione sulle parole e questo è particolarmente importante quando si parla con persone malate di Alzheimer, perché affette da deficit cognitivi. La malattia di Alzheimer mi piace considerarla una patologia della parola, in cui chi è ammalato fa fatica a parlare e fa fatica a capire, ma anche noi operatori che interagiamo con questi pazienti facciamo fatica a farci capire e possiamo non capirli. Alla Fondazione Manuli, qui a Milano, dove da tempo conduco un gruppo
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