diagnosi, faceva fatica ma andava ancora in università. Purtroppo, da quando viene confermata la diagnosi tutti guardano il soggetto malato da un altro punto di vista, non lo vedono per quello che è in ogni caso, cercano sempre, per uno strano meccanismo, di avere la conferma che si tratta di demenza. Quindi, anche se parla benino, non si cerca di capire quello che dice, ma si cerca di capire gli errori che fa come per dire ‘ah, allora è proprio demente’. Questo è catastrofico, quindi io lavoro controcorrente; la diagnosi ovviamente bisogna farla, ma quando sono davanti ad una persona con questa malattia, per prima cosa cerco di dimenticarmela e dico: ‘io sono davanti a questa persona e vediamo come possiamo stare bene insieme, vediamo come possiamo parlare, in modo che dopo un colloquio, che sia di cinque minuti o di mezz’ora, io sia contento dell’incontro che ho avuto e lui anche’. Questo è l’obiettivo che io mi pongo ogni volta che ho davanti un paziente con Alzheimer.”
“Sintetizzo con una parola che può sembrare sproporzionata: mi occupo di ‘felicità’, e poi aggiungo di ‘felicità possibile’ nonostante la malattia; non nego la malattia e non dimentico che ho davanti un malato, ma cerco di dimenticarlo perché anche chi è affetto da Alzheimer è una persona che, in un ambiente capacitante, può parlare, interagire, provare emozioni, dire la sua. Nel corso che tengo con gli operatori insegno queste cose, sostanzialmente trasmetto loro la capacità di riuscire a continuare a parlare e a colloquiare con l’Io sano della persona malata; la persona malata esprime contemporaneamente l’Io sano e l’Io malato. Tutti quanti siamo concentrati e abbagliati dalla diagnosi e ci concentriamo solo sull’Io malato, invece no, io dico ‘concentriamoci sull’Io sano’ e anche se una persona ha un comportamento bizzarro o parla male, in quelle stesse sue parole c’è l’Io sano, parliamo con quello. Questo è alla base dell’approccio capacitante.” Quindi è possibile intrattenere una comunicazione serena con il paziente? “L’Alzheimer è una lunga malattia, solo in qualche caso ha un decorso rapido, di pochi anni. Indicativamente può durare 10, 15 anni, tuttavia non si muore di Alzheimer, ma per le complicanze, infezioni, broncopolmoniti. Bisogna vedere in che fase è la malattia e quindi noi dobbiamo interrogarci sul singolo paziente, sulla singola persona che abbiamo davanti, per capire se con questa persona possiamo ancora comunicare con la parola. Con i pazienti gravi di Alzheimer con cui è difficile comunicare con la parola alcuni fanno la cura delle pacche sulle spalle: ‘ma dai che va tutto bene…’ e dicono ‘ma su dai anch’io ho perso un po’ di memoria’. Io non sono favorevole alla terapia delle pacche sulle spalle, credo che anche quando la parola è gravemente malata