ERGASTOLO: ABOLIZIONE O MANTENIMENTO?
                                              di Pierluigi Piromalli

     L’applicazione della pena dell’ergastolo ha sempre suscitato numerose reazioni nella società civile e ha sollecitato prese di posizioni e riflessioni anche a livello istituzionale. Da tempo si discorre della possibilità di abrogare questa forma di detenzione, da più parti ritenuta incompatibile con una società democratica e con la percezione di civiltà da parte della collettività. In realtà la questione divide l’opinione pubblica sempre più impaurita dal dilagare della criminalità e dell’efferatezza di alcuni reati i cui esecutori, secondo un elementare principio di certezza della pena e di protezione della società, dovrebbero essere consegnati alla giustizia per scontare le loro pene con il carcere a vita. Insomma, l’ergastolo è oggi considerato come una sanzione afflittiva e punitiva contrariamente alla finalità rieducativa che essa dovrebbe avere secondo il dettato costituzionale.
     Recentemente, anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, componente della commissione ministeriale di riforma del codice penale, si è espresso al riguardo, rammentando l’esistenza di una proposta che non è stata accolta, ma che, a suo giudizio, andrebbe ripresa e ripensata poiché, a suo dire, vi sono pene più efficaci che consentirebbero sia di risarcire le vittime dei reati sia di rieducare socialmente il condannato. L’ergastolo rappresenta insomma una forma di pena antiscientifica e anticostituzionale; antiscientifica perché è dimostrato che i meccanismi del cervello si rinnovano e questo dato consente di concludere, almeno sotto il profilo giudiziario, come un carcerato dopo 20 anni di reclusione possa essere una persona diversa rispetto al momento temporale della commissione del reato. È anticostituzionale perché vìola il principio riabilitativo previsto e contemplato nella Carta Costituzionale, il cui articolo 27 recita che le pene devono essere ispirate alla rieducazione del reo e al suo progressivo reinserimento nella società.
     Il pensiero riformatore origina dal fatto che il condannato al carcere perenne non abbia futuro poiché trascorre la vita nei pochi metri della sua cella e senza futuro non ci può essere ravvedimento ed è questa l’equazione sulla quale, secondo alcuni, sarebbe lecito porsi delle domande sulla effettiva efficacia della pena. La soluzione del carcere a vita, dunque, secondo queste semplici ed apparenti considerazioni, non risponderebbe al bisogno di giustizia, intesa nella sua più nobile accezione, ma a quello di vendetta, soprattutto per soddisfare la reazione istintiva ed emotiva dei cittadini di fronte al compimento di reati di

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