alcuna funzione rieducativa della pena, ma internando in modo perpetuo i colpevoli con sentenza passata in giudicato. Gli "ostativi", dunque, patiscono il fatto di non aver cooperato alle indagini, anche se la scelta di collaborare o meno con la giustizia può non dipendere esclusivamente dal reo visto, che il silenzio di alcuni detenuti può essere imposto sia dalla comprensibile necessità di non esporre i propri familiari a ritorsioni, tipiche dell’ambiente mafioso, sia perché non v’è modo effettivo di collaborare senza disporre di informazioni utili alle indagini.
     Fatte queste premesse, ciò significa che, anche dopo il quasi trentennio di reclusione, risulta impossibile concedere la libertà condizionata come invece avviene per gli altri detenuti sottoposti alla detenzione in regime di ergastolo ordinario. Tenuto, quindi, conto di tutti i sentimenti contrastanti che albergano nella società civile è chiaro che l’argomento non può semplicemente esaurirsi con una accademica ed anche autorevole discussione tra favorevoli e contrari alla pena, sventolando da una parte i vessilli della dignità umana e del perdono e dall’altra quelli dell’umiliazione e della vendetta. La possibile abolizione dell’istituto va necessariamente conciliata con la realtà oggettiva e con la prioritaria esigenza della collettività di essere protetta da fenomeni invasivi e liberata dall’assedio di soggetti socialmente pericolosi.
     La particolare realtà nazionale, l’esistenza di sempre più forti sodalizi mafiosi associativi e comunque organizzati, la profonda penetrazione della criminalità nel contesto sociale, la necessità di opporre a queste forme pervasive un contrasto efficace assicurando alla giustizia soggetti inclini alla commissione di gravi delitti sono le questioni preliminari che devono essere attentamente valutate prima di addivenire ad una discussione plenaria che si proponga come obiettivo l’abolizione dell’ergastolo.
     Solo quando questa presa di coscienza avrà ispirato ed orientato correttamente il legislatore e quindi l’apparato giudiziario nel garantire concretamente alla società civile la certezza della pena e, con essa, la sua effettiva efficacia rieducativa, solo allora si potrà definire maturo il processo di consapevolezza che conduce all’abolizione del carcere a vita.

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