BANGKOK E IL SORRISO DEL BUDDHA
                                              di Massimo Jevolella

     In nessun altro luogo dell’Asia è possibile ammirare un così gran numero di antiche statue del Buddha, come in Thailandia. Bangkok è certamente la capitale mondiale dell’arte buddhista, ma i suoi tesori, custoditi in templi sfavillanti come il Wat Phra Kaeo con il suo Buddha di smeraldo o il Wat Po con il suo gigantesco Buddha disteso o in istituti di straordinaria importanza come il Museo Nazionale dell’arte thailandese, non inducono soltanto a una profonda ammirazione estetica: le raffigurazioni classiche del Buddha colpiscono, infatti, soprattutto per il sottile senso di mistero suggerito dagli enigmatici sorrisi dell’Illuminato, oltre che dalla postura del suo corpo, delle sue mani e delle sue gambe. Che cosa si nasconde dunque dietro quei “segni” che affascinano e inquietano? Quale simbolismo, quale messaggio silenzioso cercano di comunicarci quelle statue millenarie di pietra e di legno, di giada, d’avorio, d’argento e d’oro? Per rispondere a queste domande dobbiamo tornare molto indietro nel tempo. Fino al quinto secolo avanti Cristo, l’epoca in cui si svolsero gli ultimi anni di vita del Beato.
     Quando Siddharta Gautama, il Buddha, ebbe raggiunto gli ottant’anni, i suoi discepoli gli chiesero: «Come faremo a ricordare la tua immagine dopo la tua morte?» Il Buddha rispose: «Non la mia figura fisica dovrete ricordare, ma il mio insegnamento.» Così, quando il Buddha morì, i suoi fedeli più rigorosi non osarono raffigurarne il volto in dipinti o statue; simbolo della sua figura divenne invece un’orma del suo piede, che indicava il cammino sulla via della liberazione e del “nirvana”. Ma il popolo, che ha bisogno di icone realistiche, chiedeva di più: voleva un volto, un corpo, un essere umano da poter contemplare e adorare e il sacro modello esisteva.
     In qualche misterioso modo, un “ritratto” del Buddha era stato trasmesso ai suoi seguaci. I cantastorie, i creatori di leggende potevano ricamarvi intorno le loro fantasie. Narravano, per esempio, che un giorno il re Rudrayàna aveva inviato al Beato alcuni valenti pittori perché ne facessero il ritratto, ma siccome quelli si affannavano inutilmente a coglierne la forma, il Buddha stesso disse che l’impedimento stava proprio nella loro fiacchezza spirituale e si fece portare una tela su cui “proiettò” la sua immagine, con un sistema analogo a quello delle ombre cinesi.
     Secondo altri, il Buddha non ricorse nemmeno alla tela, ma si limitò a indicare ai pittori la sua ombra proiettata in terra o su un muro. Comunque sia,

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