è chiara l’idea: Sakyamuni, “il Saggio silenzioso dei Sakya”, volle conferire alla sua immagine corporea, terrena, il puro valore di un simbolo, di un “mandàla” antropomorfo modellato per ispirare nei cuori e nelle menti i princìpi della saggezza, espressi ripetutamente nel “Canone Buddhistico”: «L’eliminazione della bramosia attraverso l’annullamento dei desideri, la rinuncia totale al desiderio, il distacco assoluto da tutto ciò che si desidera. Retta visione, retta risoluzione, retto parlare, retto agire, retto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta concentrazione, retta meditazione». Il corpo, in se stesso, è desiderio, è carne: è in essenza un’ombra, ma da quell’ombra l’intelletto può risalire alla verità.
     Nata su questi presupposti dottrinali, l’iconografia canonica del Buddha non poté svilupparsi che entro gli schemi di una stilizzazione rigorosa, dettata in ogni minimo particolare da una serie di regole tradizionali: le proporzioni, i colori, le posizioni, le caratteristiche fisiche e gli ornamenti del Buddha dovevano corrispondere a norme precise e a significati ben chiari. Nulla si poteva concedere all’estro personale o all’arbitrio dell’artista, pittore o scultore che fosse. La personalità dell’artista, anzi, doveva scomparire del tutto. Alle migliaia di statue del Buddha sparse dal Gange al Fiume Giallo, dal Tibet all’Indocina non è possibile attribuire mai con certezza un autore e spesso nemmeno l’epoca precisa della loro creazione.
     Così, quando nel 400 dopo Cristo il buddhismo “hinayàna” cominciò a diffondersi in tutta la Thailandia, dove tuttora è religione di Stato, si può ben dire che agli artisti thai, mon e khmer, convertiti alla nuova fede, non restasse molto altro da fare che imitare con estremo rigore i modelli figurativi del Buddha che da quasi otto secoli venivano esposti e adorati nei templi buddhisti dell’Asia. Aggiungendovi, di loro, solo qualche piccola variante, come la struttura a punta o a fiamma che spicca sopra la testa del Buddha e che rappresenta una variazione sul tema della “ushnisha”, la protuberanza da cui scaturisce l’energia “rasmi”, simbolo di sapienza superiore e di contatto con i flussi spirituali delle “alte sfere” cosmiche. Usando il nostro metro di giudizio, potremmo dire: fu il trionfo del manierismo, invece non fu così, perché gli artisti della Thailandia seppero a modo loro ingentilire e perfezionare la rappresentazione del Buddha, fino a infonderle una grazia e un senso di mistero particolari e inconfondibili.
     La cosiddetta “galleria dei Buddha” del Wat Po di Bangkok ne è un esempio. Qui, in una visione irreale, la statua dorata del Buddha assiso nella posizione del “bhumisparsa mudra”, il momento dell’illuminazione, crea una fuga prospettica che, come ebbe a notare lo studioso delle tradizioni spirituali Titus Burckhardt,

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