IL SORRISO CHE UNISCE ARABI ED EBREI
di Massimo Jevolella
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Antica è l’idea che l’umorismo possa essere una valida terapia per combattere il male delle tensioni psicologiche, dei conflitti, della rabbia e della malinconia. Già i medici della Scuola Salernitana, nel Medioevo, indicavano la “mente lieta” come uno dei tre pilastri della salute fisica e dell’equilibro mentale (gli altri due sono il riposo e la moderata dieta). La risata e il sorriso allungano la vita, si sa, e sono anche una caratteristica unica degli esseri umani tra tutte le creature del mondo animale. È possibile allora che esista una “soluzione umoristica” anche per i drammi storici più gravi, come ad esempio quello che da decenni infiamma il Medio Oriente, con la terribile lotta tra gli arabi e gli ebrei?
A distanza di breve tempo l’uno dall’altro, sono stati pubblicati in Italia due libri che sembrano suggerire una risposta positiva a questa domanda. Sono due opere rilevanti anche sul piano culturale, nonostante l’apparente “leggerezza” dei loro contenuti, ma al di là di tutto sono soprattutto due libri veramente spassosi e rasserenanti: quindi una lettura che raccomanderei a tutti, anche come strenna natalizia.
I testi in questione sono: “L’ebreo che ride”, di Moni Ovadia (Einaudi), e “Il sorriso della Mezzaluna”, di Paolo Branca, Barbara De Poli e Patrizia Zanelli (Carocci).
L’umorismo ebraico è leggendario, questo si sa. Come non rammentare personaggi del calibro di Charlie Chaplin o di Woody Allen? Gli ebrei, inoltre, sono sempre stati i primi a ridere di se stessi. Si racconta, per esempio, che un giorno, in un gruppetto di amici israeliti, sorse una discussione sui meriti e sulla presenza dell’ebraismo in tutti i grandi eventi della storia umana. Con sommo compiacimento, gli amici elencarono a gara una serie interminabile di fatti dovuti all’azione diretta o indiretta degli ebrei, ma ad un tratto uno di loro sollevò una questione imprevista: “E nell’affondamento del Titanic… che parte ebbero gli ebrei?” Nessuno seppe lì per lì cosa rispondere e nel gruppetto scese il gelo dell’imbarazzo e della costernazione. Poi, finalmente, uno di loro ebbe un lampo di genio: “Ma, ragazzi, non vi pare che Iceberg sia un tipico cognome ebraico?” E gli amici tornarono a casa contenti.
Ricchissimo di esempi divertenti come questo, il discorso di Moni Ovadia, che, ricordiamolo, è un notissimo autore-attore di teatro, s’impernia totalmente sulla tradizione “yiddish” dell’Europa orientale: il mondo brulicante e affascinante dello “shtetl”, quella sorta di villaggio-ghetto, di cui si ebbero esempi numerosi soprattutto in Polonia, in cui si concentrò per secoli la vita al tempo stesso misera ed eroica degli ebrei orientali, i cosiddetti “ashkenaziti”. Un
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