grandi poster appesi al soffitto dello spazio: Neruda, Sepulveda, Bolaño, Coloane, Serrano e cito solo i primi che mi vengono in mente, ma già sufficienti a rimarcare il rilevante valore della letteratura cilena, che avrebbe meritato un interesse del pubblico ancora maggiore di quello riscontrato.
     Ecco, questo è stato, a (inevitabilmente) grandi linee, il Salone del Libro 2013. Un evento che ha saputo ancora una volta attrarre e affascinare un pubblico parecchio numeroso, offrendogli ciò che quello si aspettava di trovare con, io credo, forse un po’ troppa prevedibilità, ovvero troppa accondiscendenza verso la situazione di mercato attuale, in qualche modo subendola piuttosto che influenzandola, cosa che da un evento come quello di Torino ci si potrebbe anche aspettare.
     Pur con il suo incrollabile fascino, resistente anche in questi tempi magri come quello d’una cattedrale barocca in mezzo ad un deserto via via sempre più arido e che personalmente continuo comunque ad apprezzare (a differenza di molti che invece lo ritengono la lusinga di un ormai inutile carrozzone), probabilmente il salone manca ancora di essere un buon volano per l’intero settore editoriale nazionale, una sorta di motore che ogni anno possa accendersi dando un prezioso impulso al comparto nella sua interezza. Comprendo benissimo che esserlo, in quest’era di crisi cronica e di smarrimento culturale, sia sempre più arduo, ma venire a conoscenza che proprio durante i giorni festosi del salone l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche italiane e per le Informazioni bibliografiche (www.iccu.sbn.it) denuncia il rischio di chiusura perché non dispone più dei finanziamenti necessari alla gestione del Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN), ovvero della rete grazie alla quale vivono tutte le biblioteche italiane, rende la festa di Torino bella, sì, ma inevitabilmente anche un poco sguaiata.

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