regime di ricovero con altre problematiche annesse. Al day hospital ci troviamo davanti a persone che apparentemente stanno bene, ma hanno ricevuto una diagnosi di tumore, pertanto devono fare i conti con due situazioni quasi in conflitto fra di loro; a questo aggiungiamo che sono qui a fare delle terapie, spesso piuttosto pesanti, che danno effetti collaterali che li condizionano nella vita di tutti i giorni. Queste persone, il più delle volte, sono accompagnate da un familiare. È importante, per noi medici, parlare innanzitutto con il paziente che è il primo referente per la malattia, cercando di capire che tipo di persona abbiamo davanti: con una persona giovane, attiva e collaborativa, puoi rapportarti in un certo modo; con un paziente più anziano, che ti può sembrare più fragile, ti rapporti in modo diverso. I parenti spesso sono quelli che vanno a volte tranquillizzati a volte anche spronati a reagire alla malattia.”
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“L’accompagnatore è comunque una figura molto importante, in gergo vengono chiamati i ‘caregivers’: sono quelle persone con le quali si può parlare, magari in forma più distaccata, della malattia, della prognosi e delle possibilità di cura. Certo, a volte possono essere un po’ invadenti con le loro domande assillanti… anche perché la malattia va affrontata con i suoi tempi e i miglioramenti si misurano di volta in volta, noi medici non abbiamo sempre tutte le risposte che loro ci richiedono.”
Lavorare al day hospital è come essere in trincea… Con quale spirito lei affronta ogni giorno il proprio lavoro?
“Cerco sempre di partire il più possibile positiva. A volte ci sono situazioni che sembrano disperate, invece ci rendiamo conto che il paziente sta bene, tollera bene la terapia… A volte, purtroppo, data la malattia, ci sono situazioni che hanno un decorso più infausto. Questo fatto mi rattrista ogni volta, perché io penso sempre che davanti a me ho una persona, da considerare nella sua globalità, non una malattia. A volte è talmente tanta l’ansia dei parenti, |
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