Pavia, che dall’Ottocento è sede degli istituti di biologia dell’ateneo pavese. Niente a che vedere con una moschea. E dunque?
Nessuno in città ha saputo darmi una risposta. Ho potuto trovare la soluzione del mistero solo grazie a una ricerca su Google. I due minareti sono il frutto di quella moda architettonica orientaleggiante che s’era diffusa in Italia e in molte parti dell’Europa nella seconda metà dell’Ottocento (basti pensare al Royal Pavilion di Brighton, in Inghilterra o, più modestamente, al favoloso Palazzo Sticchi di Santa Cesarea Terme nel Salento). Un architetto di Pavia, che apparteneva alla famiglia Botta, viaggiò in Medio Oriente e s’innamorò degli stili diffusi nell’impero ottomano. Così, quando tornò in patria, in ricordo di quel viaggio esotico volle aggiungere, con funzione puramente ornamentale, i due austeri minareti al corpo dell’antico Palazzo Botta-Adorno. Creando un effetto visivo piuttosto surreale.
L’ultimo mistero scoperto nel nostro girovagare per Pavia ci porta addirittura in epoca premedievale. Dalla via dei minareti, in pochi minuti di cammino, attraversando il viale Matteotti, si giunge al cospetto della basilica di San Pietro in Ciel d’Oro. Un capolavoro di stile romanico, edificato in epoca longobarda. Qui lo sguardo curioso viene attratto da un’epigrafe scolpita sul lato destro del portale. Sono tre versi del decimo canto del Paradiso di Dante e dicono così: «Lo corpo ond’ella fu cacciata, giace/ giuso in Cieldauro, ed essa da martìro/ e da essilio venne a questa pace». Nascono subito i dubbi: chi sarebbe “ella”, ossia qual è il soggetto della frase? Di quale corpo si sta parlando? E di quale martirio, di quale esilio? All’interno della suggestiva basilica (la stessa che ospita la magnifica arca marmorea che custodisce le spoglie di Sant’Agostino) non si trovano elementi atti a svelare con facilità il mistero, ma poi, indagando con cura, tutto si chiarisce e una terribile storia si delinea davanti alla nostra mente affascinata e commossa.
Nella cripta della basilica, esattamente al di sotto dell’arca di Agostino, c’è un’urna di marmo e di cristallo poggiata al centro di un piccolo altare. Contiene le ossa di Severino Boezio, il grande filosofo vissuto tra il V e il VI secolo d.C. Suo è dunque il “corpo” menzionato nei versi di Dante. Perciò “ella” altri non è che l’anima di Severino, che non abbandonò il corpo serenamente, ma ne fu “cacciata” violentemente, perché il filosofo subì una sorte dolorosa. In breve, la storia è la seguente: di nobile famiglia romana, all’età di circa quarant’anni Boezio era giunto a occupare una posizione di altissimo prestigio nelle file di governo del regno ostrogoto d’Italia. Sicuramente era il personaggio più illustre e
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