Se tu gli dai del tu è, innanzi tutto, per una ragione assai semplice. Tu non vuoi che l’imprendibile si trasformi in una leggenda. Troppe storie romanzesche e cinematografiche hanno dipinto i criminali mafiosi con i colori del mito. Ricordo che rimasi molto impressionato, anni fa, quando appresi che il dittatore iracheno Saddam Hussein amava rivedere molto spesso i film del “Padrino”. Evidentemente, sognava di poter emanare lo stesso fascino di Marlon Brando-Don Vito Corleone! Esiste una mitologia criminale che purtroppo finisce per alimentare la sottocultura del crimine. A modo suo, il boss mafioso si trasforma facilmente in un super-eroe e i deboli cervelli non trovano più una contraddizione fra l’atrocità dei suoi delitti e l’aura di pseudo-sacralità che lo circonda.
     Ecco allora perché io comprendo molto bene la teoria che tu ripeti spesso e che hai ribadito ancora il 14 ottobre scorso a Pavia, quando sei venuto a presentare al pubblico il tuo bellissimo libro. Tu dici in sostanza: contro la mafia non basta più il giornalismo “resistente”, ma occorre soprattutto un giornalismo “residente”. Che cosa intendi con questo? È semplice, e tu lo spieghi assai chiaramente, quando dici che Matteo Messina Denaro, in fondo, non è altro che un tuo vicino di casa: “Si comincia sempre a raccontare ciò che si ha accanto. E io, accanto a me, ho Matteo con la sua famiglia, la sua cosca, e tutti coloro che hanno resa violenta e cupa la nostra bellissima Sicilia. Credere in un giornalismo ‘residente’ significa avere la volontà di esplorare le cose vicine. Purtroppo a volte si preferisce fare giornalismo parlando di fatti lontani o per schemi generali. Essere un giornalista ‘locale’ non è una riduzione del mestiere del giornalista. Purtroppo la stampa locale ci ha abituato a questo. Ma non è così. Il giornalista locale è un giornalista che ha un compito, una responsabilità in più rispetto agli altri: raccontare la propria terra. E se non lo fa lui non lo faranno certo i grandi inviati venuti da Milano o da Torino”.
     Sai, Giacomo, io credo che ragionando così tu abbia veramente colpito nel suo centro la fragile maschera della potenza mafiosa. Perché è proprio così: nella violenza, il potere rivela in realtà la sua impotenza. La violenza è l’altra faccia della debolezza, del nulla, del vuoto culturale che sostiene un sistema di relazioni sociali malate. E allora, ecco il rimedio: affrontare questa finta e tragica maschera con la semplicità e il coraggio sfrontato, e starei per dire allegro, di chi non tratta con il “potente”, ma con il suo stupido e arrogante vicino di casa, suonando al suo campanello per dirgli in faccia apertamente quel che pensa di lui. Questo significa penetrare nella quotidianità, nella banalità

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